BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 1
Episodio 1
Con questo blog-post inizia la mia rubrica
“Diario Gregotti”.
In questa sezione avrò l’opportunità
di raccontare impressioni, avvenimenti, aneddoti
accaduti dal 1957 ad oggi, cercando di trasmettere
la mia personale testimonianza sull’evoluzione nel
settore del ricamo industriale e del mondo
che lo circondava.
L’episodio che ti racconto è avvenuto nel maggio/
giugno del 1958 a Rovellasca, cittadina molto
conosciuta non solo per la qualità delle patate,
ma soprattutto per importanti ditte tessili
manifatturiere.
A quei tempi migliaia di donne erano addette al
ricamo su camicie da notte, vestaglie, pigiami ecc.
con macchine chiamate “pedalina”
in quanto il movimento dell’ago veniva trasmesso
azionando la pedaliera.
Il ricamo si formava spostando manualmente
il telaietto e la larghezza del punto veniva
calibrata azionando una leva con il ginocchio.
Di conseguenza la produzione era molto esigua,
nonostante in alcune ditte fossero impiegate
centinaia di ragazze.
In particolare durante quel periodo ricordo che
alla Confezione Farfalla fu consegnata una fra le
primissime macchine multitesta della Zangs ed io,
che in quegli anni producevo i programmi (cartoni)
che azionavano il jacquard della macchina da ricamo,
ero frequentemente da loro.
Tenendo presente che avevo 20 anni
e che non ero indifferente a certe
(pie e caste attenzioni) una sera alla chiusura
del turno di lavoro, mentre mi avviavo a salire
sulla mia auto, (Fiat 500 giardinetta metallica)
sono stato circondato da un discreto numero di
ragazze. Pensavo che avessero in mente una qualche
festicciola o un aperitivo ma presto ho dovuto
ricredermi perché il tono improvvisamente è passato
da amichevole a decisamente ostile e sono diventato
oggetto di mira delle loro famose patate!
La ragione era semplice: una macchina automatica
produceva al giorno 3-4 volte di più delle singole
operatrici e la ditta aveva iniziato i procedimenti
di licenziamento. Il fatto che vendevo disegni per
macchine da ricamo fece sì che le ragazze
mi ritenessero responsabile.
Non scorderò mai quell’episodio e nemmeno la mia 500
Giardinetta che passò una settimana dal carrozziere
per la riparazione dei danni causati dai bozzi
delle patate di Rovellasca.
Macchina da ricamo a pedale
birgunbiryerde.blogspot.com
Macchina da ricamo mutlitesta antica
likesx.com
Questa rubrica è un racconto autobiografico - a cura di Angelo Gregotti, Fondatore e Presidente del gruppo
Studio Auriga - che nasce nell’intento di ricordare la storia del ricamo industriale in Italia, l’intuizione
imprenditoriale di Angelo, il viaggio in Giappone, la creazione di un partnership con Tajima, l’evoluzione
del mercato, le tecniche decorative, i fattori di successo e molto altro.
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 2
Episodio 2
Nei vent’anni che precedono l’inizio del rapporto
con l’azienda giapponese Tajima, fornendo
disegni-ricamo, ho assistito alla nascita e contribuito
alla crescita di molti ricamifici. Lavorando in
sinergia con questi laboratori conoscevo in profondità
le caratteristiche che i disegni e le macchine
dovevano avere per assicurare la migliore qualità
del ricamo.
In questo percorso mi sono reso gradualmente conto
che il mercato aveva una domanda ampia e
diversificata e che fosse necessario un salto
tecnologico per soddisfarla.
Mi spiego meglio, all’epoca i macchinari non
superavano i 250 punti al minuto e ricamavano
un solo colore di filato mentre la richiesta del
mercato era orientata verso lavorazioni multicolore.
I telaietti di legno dovevano essere foderati con
una striscia di garza che sosteneva il tessuto
e doveva essere frequentemente sostituita perché
si sporcava e si logorava durante l’utilizzo.
I campi da ricamo non superavano la dimensione di
45x35 cm e, come se non bastasse, erano talmente
deboli da non reggere il peso dei materiali che
dovevano essere appesi a grandi anelli sopra
la macchina.
Prova ad immaginare che fatica intelaiare un
tessuto a quei tempi! La produzione del
disegno-ricamo, invece, avveniva grazie alla
Macchina Punch che codificava le grafiche su
cartoni Jacquard, i quali, in un passaggio
successivo, venivano inseriti nella ricamatrice
che era corredata da un dispositivo meccanico
(Jacquard) che permetteva di leggere i fori,
trasmettendo al telaio il movimento per
realizzare il ricamo.
Un processo meccanico non semplice da
comprendere per chi non lo ha vissuto in prima
persona, e completamente diverso dall’attività
di sviluppo grafico del ricamo come la intendiamo
ai giorni nostri. Al posto del software di grafica
si utilizzavano quindi macchinari più grandi e lenti
che venivano prodotti da un’azienda tedesca.
Pensa che disagio in caso di guasto!
A quei tempi bastava una minima disattenzione
dell’operatore per causare la rottura del Jacquard.
In Italia non esisteva un centro tecnico in grado
di riparare queste macchine perciò, in caso di
necessità, si avevano due possibilità: o si
sceglieva di spedirlo, considerando che i tempi
di viaggio e per le documentazioni doganali
avrebbero allungato il periodo di riparazione,
oppure, come avveniva nella maggior parte dei casi,
occorreva riportare le macchine allo stabilimento
del produttore.
Per questo motivo mi è capitato spesso di recarmi
in Germania. In genere occorrevano circa 18 ore
di viaggio, di cui mediamente 8 ore per arrivare
a Basilea e poi una decina di ore di autostrada,
costruita con lastroni di cemento che facevano
sobbalzare l’auto ogni 20 metri.
Il grigiore dello smog, tipico di quella zona
industriale, insieme al frequente maltempo,
rendevano quell’ultimo tratto di percorso molto
monotono e faticoso.
Giunto finalmente a destinazione, mentre eseguivano
le riparazioni, riferivo ai tecnici le esigenze più
comuni dei clienti e suggerivo soluzioni per
accontentarli. Ancora sorrido se ripenso
all’atmosfera di gelo ogni volta che io, giovane
pieno d’entusiasmo, cercavo di spiegare queste
necessità ai presuntuosi ingegneri tedeschi.
Per incrementare il mercato occorreva migliorare
le macchine e renderle sempre più idonee alle
esigenze dei ricamatori italiani.
Rimasi molto deluso perchè ritenevano che questi
suggerimenti fossero infondati e, in poche parole,
di badare ai fatti miei. Erano così orgogliosi
della qualità dei macchinari che producevano da non
considerare le mie richieste di miglioramento,
che rispecchiavano peraltro quelle dei loro clienti.
Nel prossimo episodio ti svelerò come sono riuscito
ad avere la mia rivincita.
** La Macchina Punch è una donazione di Studio Auriga
al Museo del Tessile di Busto Arsizio che vi invitiamo
a visitare, entrata libera e gratuita
Macchina da ricamo multitesta 1970
Cartone perforato “Jacquard”
Questa rubrica è un racconto autobiografico - a cura di Angelo Gregotti, Fondatore e Presidente del gruppo
Studio Auriga - che nasce nell’intento di ricordare la storia del ricamo industriale in Italia, l’intuizione
imprenditoriale di Angelo, il viaggio in Giappone, la creazione di un partnership con Tajima, l’evoluzione
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 3
Episodio 3
Nella puntata precedente ho raccontato la mia
esperienza nel settore del ricamo industriale negli
anni ‘60 e la difficile comunicazione con l’azienda
tedesca che produceva macchine da ricamo e si
mostrava poco ricettiva nei confronti delle
esigenze dei Clienti italiani. Ricordo che in quel
momento l’attività principale dell’Auriga era la
produzione di cartoni Jacquard in cui venivano
codificati i disegni-ricamo da inserire in un
passaggio successivo sulle macchine da ricamo.
La prima ricamatrice fu prodotta in Germania da
Wurker nel 1926, produzione che dismise all’inizio
della seconda guerra mondiale per passare al
settore degli armamenti.
Agli inizi degli anni ’50 alcune aziende tedesche:
Zangs, Marco e Marcus iniziarono la produzione
delle macchine da ricamo multitesta: erano le
uniche in Europa.
Nei primi anni ’70 sono venuto a conoscenza che
macchine giapponesi a 6 colori erano state
vendute in Inghilterra.
Poichè esistevano restrizioni doganali che non
consentivano o contingentavano l’importazione di
alcune categorie di macchine, fu necessario
attendere fino al 1974.
Nel 1975, a Milano, si svolse l’ITMA,
l’esposizione itinerante più importante per
l’industria tessile-confezione.
Un evento speciale molto atteso che avveniva
ogni 4 anni alternando Francia, Germania,
Inghilterra, Italia e Svizzera, le 5 nazioni
europee più interessate ai vari processi di
tessitura, finitura e nobilitazione del prodotto.
Tra gli espositori nel settore dedicato al
ricamo vi era Tajima, azienda giapponese
che presentava 2 modelli di macchine da
ricamo: una 8 teste TMJR ed una 12 teste
TMB a 6 colori.
Fu proprio in quell’occasione che io e il
mio socio svizzero Bruno Ecknauer realizzammo
che Tajima era avanti anni luce rispetto
alla tecnologia tedesca.
Maggiore velocità, cambio colore automatico,
campi da ricamo di dimensioni maggiori
e numero di teste raddoppiato,
consentivano rese di produzione molto
più redditizie, oltre ad un’eccezionale
qualità del ricamo.
La Terrot-France, il cui titolare
Mr. Leon Gelrubin aveva ottenuto la
rappresentanza Tajima per l’Europa, mi
contattò per offrirmi la rappresentanza
per l’Italia.
La proposta era molto allettante e mi offriva
l’opportunità di conoscere un mondo
completamente nuovo. Fui attirato da
questa prospettiva.
Il mio entusiasmo per questa iniziativa fu
però frenato dal fatto che Auriga era
riconosciuta sul mercato italiano ed
estero come il maggiore e più qualificato
produttore di programmi ricamo.
Poichè la clientela utilizzava macchine
di produzione tedesca, trattare macchinari
di un’azienda concorrente avrebbe causato
ai loro occhi un conflitto d’interesse
ed una inevitabile rottura dei rapporti
con le ditte fabbricanti che sino ad
allora erano cordiali.
Dopo alcune settimane di riflessioni
e di trattative condotte con grande
capacità da Mr. Gelrubin, alla proposta
di una collaborazione tecnica, finalmente
eliminai tutte le mie remore ed accettai.
Nacque così lo Studio Auriga che divenne
partner della Terrot Mauser e rappresentante
del marchio Tajima in Italia.
La collaborazione con questa società francese
fu da subito molto proficua ed in perfetta
armonia: io curavo la parte tecnica e loro
quella commerciale.
Questo comportava frequenti viaggi in Giappone,
ma di questo ti parlerò nel prossimo episodio.
Macchina da ricamo Wurker del 1926
Questa rubrica è un racconto autobiografico - a cura di Angelo Gregotti, Fondatore e Presidente del gruppo
Studio Auriga - che nasce nell’intento di ricordare la storia del ricamo industriale in Italia, l’intuizione
imprenditoriale di Angelo, il viaggio in Giappone, la creazione di un partnership con Tajima, l’evoluzione
del mercato, le tecniche decorative, i fattori di successo e molto altro.
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 4
Episodio 4
Nella puntata precedente ho raccontato il primo
incontro con Tajima, azienda giapponese produttrice
di macchine da ricamo, avvenuto a Milano nel 1975
durante l’ITMA, la fiera più importante in Europa per
l’industria tessile-confezione.
Rimasi molto colpito dall’avanguardia di questa
tecnologia e da quel momento in poi l’attività della
mia ditta iniziò ad orientarsi verso una nuova sfida,
quella delle macchine industriali.
Così presi contatti con La Terrot France,
rappresentante Tajima per l’Europa, la quale mi
propose la rappresentanza per l’Italia.
Ai tempi l’Auriga era il principale produttore di
programmi ricamo in Europa e mi preoccupava la
reazione dei miei clienti e dei fabbricanti che da
“amici” sarebbero diventati concorrenti a causa
della fornitura di questo nuovo prodotto.
Tuttavia questa titubanza iniziale diventò molto
presto un punto di forza.
Gli acquirenti si sentivano infatti rassicurati
dall’acquisto di macchine così innovative presso
un’azienda storica che poteva supportarli anche
nella produzione dei disegni.
Così l’Auriga si consolidò ufficialmente come partner
della Terrot France e rappresentante del marchio
Tajima in Italia.
In questo nuovo contesto io mi occupavo della
gestione tecnica e Terrot France di quella
commerciale.
Ciò comportava frequenti viaggi in Giappone per
incontrare il Sig. Ikuo Tajima, Presidente,
Fondatore ed anima della società, al quale segnalavo
le macchine e le migliorie più richieste nel mercato
europeo. In particolare vi era la necessità di
ricamare in continuo la balza del lenzuolo di 240 cm
in un’unica macchinata.
Le macchine di allora potevano eseguire questa
operazione spostando il tessuto dopo ogni intelaiata
e la centratura richiedeva molto tempo.
Macchina Tajima con campi da ricamo 30×40 cm
Per questa ragione durante i primi incontri
presentai l’esigenza di una nuova ricamatrice per la
biancheria da letto, allora in grande espansione,
con un campo da ricamo di una dimensione che
facilitasse la decorazione del tessuto “in posizioni
standard” (centro, intermedio, angolo) ed “in
continuo”, ed inoltre di una macchina per ricamare
la federa in un’unica intelaiata.
I miei suggerimenti vennero ascoltati con molto
interesse e ne fui immensamente gratificato.
Il Sig. Ikuo Tajima apprezzò la mia analisi e diede
istruzioni al suo staff per iniziare gli studi di
progettazione delle nuove macchine.
In pochi mesi fu realizzato il modello TMEF-H dotato
di campi da ricamo con dimensioni inedite, 680×400
e 680×600 mm, che erano perfettamente
adatte allo scopo.
Ricami su federa realizzabili con il modello Tajima TMEF
Il primo approccio di queste nuove ricamatrici sul
mercato fu un successo esplosivo, queste macchine
incontrarono subito il favore della clientela.
La domanda superò di gran lunga l’offerta
disponibile e la sfida a questo punto diventò
rispondere velocemente alle più che numerose
richieste d’acquisto, considerando i tempi di
trasporto dal Giappone.
Visto il positivo riscontro ottenuto, Il Presidente
di Tajima mi chiese un supporto costante nello
sviluppo dei nuovi modelli di macchine da destinare
all’Italia ed agli altri mercati che di conseguenza
ne avrebbero sviluppato l’esigenza.
A questo scopo nella sede Tajima Giappone fu
istituito, all’interno della divisione
Ricerca-Sviluppo, un sotto-gruppo di persone con il
compito di sostenermi nell’analisi delle esigenze
del mercato italiano, al fine di un trasferimento più
veloce e preciso delle informazioni.
Questo poiché durante quegli anni le comunicazioni
erano molto lente, si usava solo il Telex,
l’antenato del Fax, e non si potevano trasmettere
foto se non per mezzo posta.
Nonostante il supporto di questo nuovo team,
rimase comunque indispensabile recarmi di persona
periodicamente in Giappone per supervisionare i
modelli in produzione, perorare per ridurre i tempi
di consegna e definire le strategie di vendita.
I trasporti erano molto meno agevoli di oggi, per
arrivare a Tokyo in aereo era necessario effettuare
tre scali intermedi e la durata complessiva del
viaggio per Nagoya superava le 18 ore.
Nagoya era una città di 500 000 abitanti, un piccolo
aeroporto e pochi palazzi di oltre 10 piani.
Le strade erano molto strette ed attraversavano un
territorio agricolo disseminato di graziose villette
con tetti di ceramica, circondate da piccoli e
graziosi giardini.
Oggi lo scenario è molto cambiato, è infatti
possibile raggiungere la fabbrica attraverso
superstrade che in alcuni punti sono a 3 o 4
livelli ed, al posto delle villette, ci sono molti
stabilimenti e palazzi di oltre 20 piani.
Stabilimento Tajima dell'epoca
Durante i giorni lavorativi in Giappone le riunioni
con lo staff Ricerca e Sviluppo s’interrompevano per
la pausa pranzo sempre a mezzogiorno.
In genere ci recavamo all’unico ristorante della
zona. Ancora ricordo con simpatia lo stupore degli
avventori quando mi vedevano, soprattutto dei
bambini, perché ero uno dei primi stranieri che
incontravano. Dopo alcuni giorni prendevano confidenza
e venivano a salutarmi con affetto, felicissimi
di potermi toccare con una certa curiosità… il
naso! (così diverso dal loro). Invece ripenso con
meno nostalgia al cibo, che non era proprio di mio
gusto. Questo piccolo ristorante di paese serviva
piatti molto semplici ma rigorosamente a base di
minestre di alghe o verdure insieme a carne bollita,
estremamente nervosa e grassa. Trovavo molto difficile
pranzare senza pane ed attendevo con impazienza
l’arrivo della frutta che mangiavo in buona
quantità, creando un po’ d’imbarazzo ai miei ospiti
a causa dell’altissimo costo della stessa poiché nel
Giappone di quei tempi era considerata un bene di
lusso. Il buono pasto infatti non poteva superare un
certo importo (anche per i dirigenti) ed il costo
della frutta non era compreso.
Il lato positivo era che dopo alcuni giorni di
lavoro rientravo in Italia con un peso forma
invidiabile. Al termine delle giornate lavorative
seguivano momenti d’intrattenimento tipicamente
giapponesi che ricordo con grande emozione, ma di
questo racconterò in dettaglio
nel prossimo episodio.
Questa rubrica è un racconto autobiografico - a cura di Angelo Gregotti, Fondatore e Presidente del gruppo
Studio Auriga - che nasce nell’intento di ricordare la storia del ricamo industriale in Italia, l’intuizione
imprenditoriale di Angelo, il viaggio in Giappone, la creazione di un partnership con Tajima, l’evoluzione
del mercato, le tecniche decorative, i fattori di successo e molto altro.
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 5
Episodio 5
Nello scorso episodio ho raccontato l’inizio della
collaborazione con Tajima, azienda giapponese
produttrice di macchine da ricamo ed i motivi del
successo sul mercato italiano di questo business che
all’epoca completava l’attività più storica
dell’Auriga, la produzione dei disegni ricamo.
Da quel momento in poi iniziai a recarmi in Giappone
per supportare Tajima nello sviluppo dei nuovi
modelli di ricamatrici da destinare all’Italia.
Quando mi trovavo in trasferta la parte più ostica
era dare istruzioni tecniche in inglese da tradurre
in giapponese.
Per questo motivo il Presidente di Tajima creò un
team di persone all’interno della funzione Ricerca
e Sviluppo per supportarmi ed agevolare quindi le
procedure di trasmissione delle informazioni.
In genere alle riunioni erano presenti i responsabili
dei singoli reparti con il loro staff di 3 o 4
persone, tutti con il blocco per gli appunti,
attentissimi e silenziosi.
Per ogni argomento, dopo poche parole, dovevo
interrompermi per dare il tempo necessario di
tradurre e prenderne nota.
Alcune sessioni duravano alcuni giorni.
Gli incontri terminavano alle h. 17.30 precise e
subito dopo si andava direttamente a cena, senza
avere neppure il tempo di una breve pausa in hotel.
Quasi ogni serata terminava in uno dei bar più
esclusivi del centro città dove veniva spesso
praticato il Karaoke e si bevevano alcolici,
mangiando dolcetti e frutta serviti da uno staff
composto da eleganti ragazze in abiti tradizionali
che mi salutavano sempre in modo cordiale ed
amichevole.
Sentendo la mia provenienza, cercavano di mostrare
la loro accoglienza pronunciando qualche parola in
italiano come “naso, occhi, pizza e spaghetti”.
Nonostante la stanchezza della giornata, la dolcezza
di queste persone rallegrava la mia serata lasciandomi
ogni volta senza parole per la cultura, l’eleganza e
la professionalità con cui si esprimevano.
Ad un certo punto la conversazione s’interrompeva
perché era consuetudine terminare questo momento di
svago entro 40 minuti!
Restai molto perplesso, soprattutto durante le prime
sere poichè non riuscivo bene a realizzare cosa
stesse accadendo.
Dopo un po’ di tempo capii che si trattava di un
modo tradizionale per concludere in modo più
rilassato la giornata lavorativa e, seppur con
fatica, riuscii ad abituarmi.
Queste serate erano molto gradite ai Giapponesi.
I dirigenti ed i membri “selezionati” dell’azienda
si impegnavano con grande zelo a divertirsi
soprattutto in presenza del Presidente.
Si sentivano infatti onorati di essere stati
invitati direttamente dal Titolare e questo “mostrarsi
felici” per loro rappresentava un segno di gratitudine
nei suoi confronti.
Alle h. 23:30 tutti i locali chiudevano e ci si
trovava in mezzo ad una fiumana di gente che si
dirigeva zigzagando nella direzione dei parcheggi
dove erano attesi da più di 5000 taxi.
Ho un ricordo incredibile dell’energia che si
riversava per quelle vie, uno spaccato molto
emozionante della vita di quella comunità, di
cui avevo avuto la fortuna di far parte, seppur
per breve tempo.
Così trascorrevo tra Nagoya ed Osaka fino a 2
settimane consecutive. Ricordo quel periodo faticoso
per i nuovi stimoli che ricevevo ma altrettanto
appagante per gli importanti sviluppi che intravedevo
all’orizzonte.
Ma di questo racconterò meglio nella prossima puntata.
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 6
Episodio 6
Nel mese di settembre 2018 ci siamo dedicati alla
preparazione per l’inaugurazione dei nuovi uffici e
dello showroom. Questo evento, grazie all’impegno
profuso da tutte le persone coinvolte, ha avuto
un’accoglienza superiore a tutte le nostre
aspettative.
Ho rivisto clienti con i quali avevo avuto rapporti
nei primi anni della mia attività, molti figli dei
miei primi clienti e alcuni già con i loro figli.
Ho ricevuto moltissimi complimenti che hanno
gratificato ampiamente il mio impegno per i 60 anni
di attività. Molti clienti mi hanno salutato
chiamandomi come allora ”Sig. Auriga”.
Questo successo (perdonate la mia presunzione) ha
suscitato molti ricordi. Uno in particolare mi è
rimasto particolarmente impresso.
Fiera di Milano anno ‘78 (allora non c’erano fiere
specializzate nazionali) avevamo allestito uno
stand di ca.150 mq. Mia moglie ne aveva curato
l’allestimento dandogli un tono di elegante
raffinatezza che lo distingueva da tutti e dove
abbiamo esposto alcuni modelli di macchine
Tajima molto “indovinati”.
Abbiamo avuto molti visitatori. Era difficile
seguirli tutti perché oltre a me e mia moglie,
avevamo solo un tecnico (il mitico Pietro) che
doveva seguire le macchine ed illustrarne le
qualità tecniche.
Tra questi una signora che avevo giudicato più
come curiosa che come potenziale acquirente, e
pertanto la pregavo di avere pazienza ed aspettare.
La signora dopo qualche tempo si è seduta
rassegnata.
Finalmente, dopo alcune ore di attesa, è arrivato
il suo turno.
La signora era proprietaria di una piccola
confezione nella zona del lago di Garda e mi ha
spiegato, con un simpaticissimo dialetto veneto,
che aveva deciso di acquistare due macchine.
Potete immaginare come io sia rimasto ammirato
per la signorilità, educazione e comprensione di
questa signora della quale ricordo ancora bene il
nome, tanto era singolare, la signora si chiamava
Egidia.
Sono riuscito a farmi perdonare, tanto che le
abbiamo consegnato negli anni successivi diverse
altre macchine.
Quanti di noi avrebbero avuto così tanta pazienza!
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 7
Episodio 7
Stiamo sperimentando una nuova normalità.
Dopo il lungo periodo di arresti domiciliari,
causa Covid-19, finalmente è arrivata
la libertà condizionata.
Ho atteso con una certa impazienza questa
data, ora ci siamo.
Chi mi ha conosciuto da tempo sapeva che a causa
del lavoro ero molto più impegnato fuori dalla
ditta, e spesso all’estero anche per lunghi periodi.
Ero a casa non più di un centinaio di giorni
all’anno e parte degli stessi trascorsi in vacanze.
Quindi questa forzata permanenza l’ho voluta
considerare come un risarcimento del tempo perduto.
Agli inizi avevo iniziato un diario personale,
segnando gli avvenimenti più importanti o
significativi, ma poi ho constatato che erano
sempre gli stessi. Iniziava ad essere davvero noioso,
anche per me che ne ero l’autore... Le varianti erano
i diversi pareri, consigli, previsioni degli esperti.
Non avevo la minima idea di quanti fossero e quante
specializzazioni esistessero. Per cui ho smesso di
tenere il mio diario.
Ho trascorso e sto trascorrendo questo periodo
con mia moglie e mai mi sono trovato così bene.
Tutti noi giustamente ci lamentiamo di questa
epidemia: per le conseguenze che ha portato e
che causerà in un futuro, davvero difficili da
immaginare.
Certamente non sarà facile, per alcuni settori
potrebbe essere quasi impossibile ripartire:
dovremo modificare molti dei nostri comportamenti,
trovarne di nuovi e, più difficile, abbandonarne
alcuni.
Questo evento ha causato molte perdite e disagi,
ma ci ha consentito di vedere molti errori che,
inconsapevolmente, stavamo facendo. Ognuno di noi
ha riconsiderato e riprogrammato i propri stili
di vita, ha guardato dentro sé stesso e, meglio
ancora, ha considerato che ci sono anche gli altri.
La riapertura graduale ci consentirà di adeguarci
con maggiore sicurezza alla normalità. Ho avuto
modo di parlare con parecchi di voi e ho sentito
nella vostra voce fiducia, determinazione e
coraggio. Non vedo l’ora di rincontrarvi per
leggere la stessa forza anche negli occhi.
Siete un grande gruppo, siete i migliori del mondo,
potete e dovete essere ancora meglio di prima.
Bentornati!
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BLOG > DIARIO GREGOTTI > EPISODIO 8
Episodio 8
Con questo episodio riprendo il mio racconto sulla
storia del ricamo industriale.
Nell’episodio 5 ho ricordato le prime trasferte di
lavoro a Nagoya, città del Giappone sede di Tajima,
azienda produttrice di macchine da ricamo industriali,
con cui avevo iniziato a collaborare per lo sviluppo
di nuovi modelli da destinare all’Italia.
Grazie a queste sessioni erano state sviluppate le
prime macchine da ricamo studiate appositamente per
il mercato italiano, che riscossero da subito,
con mia grande soddisfazione, un notevole successo.
Così nel 1978 partecipammo per la prima volta alla
Fiera campionaria di Milano, allora fra le più
importanti e visitate esposizioni in Italia in
fatto di novità.
La presentazione di una 5 teste, 9 colori e campo
70x70cm e di una 12 teste, 12 colori e campo
40x30cm fu accolta con grandissimo interesse.
Questi modelli furono rivoluzionari rispetto
alle altre multitesta presenti sul mercato,
perché consentivano di fare il ricamo in più
colori contemporaneamente. Entusiasmo a parte,
c’era un problema: molti ricamatori faticavano
a considerare “affidabili” le nuove macchine
provenienti dal Giappone1. Questi timori venivano
alimentati dalla concorrenza, la quale diffondeva
voci, non veritiere, sulla tecnologia Tajima.
Contrapponeva, ad esempio, l’acciaio di prima
qualità tedesco con i “bambù”2 usati dai giapponesi
e instillava il timore che la maggiore distanza con
l’azienda produttrice avrebbe comportato tempi di
attesa più lunghi per l’assistenza e la consegna
dei ricambi.
Dovevo trovare una soluzione, per dimostrare con
i fatti che i timori erano infondati. Così iniziai
a ingrandire la sede per esporre le macchine,
acquistai un’ampia dotazione di pezzi di ricambio
e, ancora prima di iniziare la distribuzione dei
macchinari, mi preoccupai di formare un tecnico
presso la sede della Terrot France, l’allora
rappresentante generale Tajima per l’Europa.
Solo allora iniziai la vendita e le prime consegne.
Un altro argomento della concorrenza a sfavore
di Tajima era il tempo che occorreva per il cambio
colore. Sostenevano infatti che infilare gli aghi
di una macchina a 12 colori di filato per testa,
rispetto a una comune macchina monocolore, era un
processo molto più lungo. Ai tempi questa convinzione
fu per me la migliore pubblicità. Questi argomenti
fecero molta presa, all’inizio, ma quando una Ditta
del Ferrarese decise di sostituire ben 56 delle sue
macchine monocolore con 14 nostre macchine di 12
teste a 12 colori non ci furono più
perplessità: la strada era spianata.
Furono installate in poco tempo diverse macchine.
La qualità delle stesse, di gran lunga superiore
a quelle della concorrenza, convinse anche
i più scettici. Nel frattempo avevo organizzato
una rete di vendita con assistenza su quasi
tutto il territorio e in breve tempo riuscii a
conquistare una buona parte del mercato.
Il passo successivo fu capire quali fossero le
macchine più interessanti per gli anni a venire.
Note:
-
In quegli anni post conflitto bellico in Italia vi
era particolare diffidenza verso le merci importate
dall’estero e le aziende “sconosciute”
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In Giappone il bambù era il materiale di costruzione
più utilizzato e apprezzato per le sue particolari qualità di
resistenza e convenienza
Questa rubrica è un racconto autobiografico - a cura di Angelo Gregotti, Fondatore e Presidente del gruppo
Studio Auriga - che nasce nell’intento di ricordare la storia del ricamo industriale in Italia, l’intuizione
imprenditoriale di Angelo, il viaggio in Giappone, la creazione di un partnership con Tajima, l’evoluzione
del mercato, le tecniche decorative, i fattori di successo e molto altro.
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